ITALIANO - LETTERATURA 1




La lingua italiana dalle origini ad oggi

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La lingua italiana nasce dall’evoluzione del latino parlato quotidianamente dalla gente e non dal latino usato dagli scrittori e testimoniato dalle opere letterarie classiche.

Il latino era la lingua parlata da un piccolo popolo di contadini e pastori, che intorno al 1200 a.C. si era stabilito presso la foce del fiume Tevere, dove aveva fondato una città, Roma.
Tra il V e il III secolo a.C. questo popolo, che faceva parte del vasto ceppo dei popoli indoeuropei originari dell’Europa centro-orientale, sottomise militarmente e politicamente tutti i popoli al di qua delle Alpi e, poi, nei secoli successivi buona parte dell’Europa settentrionale e dell’Africa e dell’Asia mediterranee.
Ai popoli conquistati esso impose, insieme alle proprie leggi, la propria lingua. Ai tempi di Augusto (63 a.C.-14 d.C.) si era quindi già compiuta la prima unificazione linguistica d’Italia.

Non tutti i popoli italici parlavano però lo stesso latino di Roma: in questa sua diffusione, infatti, il latino parlato risentì sia a livello della pronuncia sia a livello del lessico, l’influsso delle parlate locali cui si venne sovrapponendo (mentre il latino scritto si conservava uguale nel tempo rimanendo legato a modelli rigidi).

Fino a quando l’autorità politico-amministrativa di Roma fu salda, il latino rimase la lingua ufficiale di tutto il vasto Impero fondato dai Romani. Quando, però, l’Impero romano, tra il IV e il V secolo d.C., cominciò a disgregarsi sotto l’urto delle invasioni barbariche, la lingua latina perse la sua centralità e la sua forza unificante. Di fatto, intorno al V-VI secolo d.C., in alcuni territori, come in Europa centrale e in Inghilterra, il latino scomparve, sostituito da lingue germaniche che sarebbero poi diventate l’attuale tedesco e l’attuale inglese. Invece, in altri territori, dove la colonizzazione romana era stata più lunga e intensa, come l’Italia, la Francia, la Spagna, il Portogallo e la Romania, le antiche lingue locali, tornarono sempre più a galla. Così, in quei paesi si formarono, sulla comune base latina, attraverso una lunga serie di trasformazioni che riguardano la fonetica, la morfologia, la sintassi e il lessico, nuove lingue, tutte derivanti dal latino, ma ciascuna con caratteristiche proprie.

Queste lingue proprio perché sono il frutto dell’evoluzione nel tempo del latino, sono dette lingue «neolatine» (cioè “le nuove lingue latine”) o «romanze» (cioè “le lingue di origine romana”).
Anche in Italia, come in tutta l’Europa, nacquero i vari dialetti che presero il nome di «volgari», cioè “lingue di uso comune” rispetto al latino scritto, ormai conosciuto solo da pochissimi dotti. Poi, nel corso del Trecento, tra tutti i volgari italiani, si distinsero i volgari toscani, soprattutto quello fiorentino. La cosa non fu certo casuale, e la conquista di questa “supremazia” si fondava su precisi motivi storici, economici e culturali:

– il volgare fiorentino non si era allontanato molto dal latino letterario;

– Firenze era posta quasi al centro della penisola, il che favoriva la diffusione del suo dialetto sia al Nord sia al Sud;

– nel Trecento, Firenze era diventata una delle città più importanti e ricche d’Italia grazie alle attività commerciali e finanziarie;

– fiorentini furono gli scrittori che, nel corso del Trecento, diedero inizio alla grande letteratura italiana: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio composero le loro opere immortali proprio nel volgare fiorentino.

Nella prima metà del Quattrocento, gli umanisti riaffermarono la validità letteraria del latino a discapito del volgare, considerato inferiore e inadatto all’espressione letteraria. Dante stesso fu aspramente criticato per aver preferito il volgare al latino.

Nella seconda metà del Quattrocento, però, il volgare tornò a essere la lingua della letteratura: gli intellettuali si resero conto che il volgare aveva la stessa dignità e le stesse doti espressive del latino. Alla riaffermazione del volgare concorsero alcuni grandi scrittori e poeti, come Leon Battista Alberti, Lorenzo il Magnifico, Angelo Poliziano, Matteo Maria Boiardo, Luigi Pulci, Leonardo da Vinci.
Un altro fattore contribuì in maniera determinante alla ripresa del volgare: l’invenzione della stampa a caratteri mobili, a opera del tedesco Gutenberg, perché consentì una maggiore diffusione dei testi scritti in questa lingua.

Nel Cinquecento, il volgare aumentò il suo prestigio, divenne lingua letteraria, scientifica, filosofica. Nacque la questione della lingua. Il dibattito sulla scelta del volgare da usare vide risultare vincente la posizione di Pietro Bembo: la lingua letteraria d’Italia doveva essere il fiorentino, non quello parlato, ma quello letterario usato dai tre grandi trecentisti Dante, Petrarca, Boccaccio. Da allora il fiorentino divenne la lingua italiana; tutti gli altri volgari assunsero il ruolo secondario di dialetti.
Tra i grandi autori del Cinquecento ricordiamo in particolare Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli.

Nel Seicento l’Accademia della Crusca pubblicò il primo grande Vocabolario della lingua italiana, che raccoglieva parole e modi di dire della lingua letteraria fiorentina del Trecento. L’opera suscitò in tutta la penisola un fervore di studi, di iniziative e di ricerche che incrementarono la produzione e l’analisi della lingua. Moltissime furono le trattazioni grammaticali; le parti del discorso vennero ampiamente discusse; si stabilirono regole per l’ortografia, la fonologia, la punteggiatura. Ormai la lingua italiana era lingua nazionale, accettata da tutti. Venne usata anche nei testi scientifici, fino ad allora scritti in latino. Galileo Galilei scrisse in lingua italiana la sua opera più importante Dialogo sopra i due massimi sistemi, perché tutti fossero in grado di conoscere le sue teorie e i risultati delle sue ricerche.

Nel Settecento ripresero vigore le discussioni sulla questione della lingua. La disputa principale fu tra i sostenitori e gli avversari del toscano trecentesco, che aveva assunto un valore di norma e modello. I primi, detti puristi, si ispiravano ai princìpi dell’Accademia della Crusca, fondata nel 1583 con l’intenzione di preservare l’originaria «fiorentinità» della lingua italiana, escludendone tutti i neologismi, in particolare le parole che venivano importate da lingue straniere. I secondi, invece, reclamavano la libertà di usare il linguaggio senza altri vincoli, se non quelli imposti dai «lumi» della ragione. Infatti, dato il primato politico e culturale della Francia nell’Europa del tempo, nell’italiano del Settecento entrarono molti «francesismi»: bigné, dessert, champagne, bidé, madame… Si cominciò a parlare francese un po’ dovunque; si diffuse l’insegnamento anche nelle scuole.
Il quadro linguistico dell’Italia del Settecento era il seguente: si usavano il latino, l’italiano, il francese e, naturalmente, i vari dialetti. Soprattutto il teatro, mettendo in scena situazioni e personaggi tratti dalla realtà quotidiana, usava necessariamente il dialetto, come dimostra la commedia di Carlo Goldoni.

Nella prima metà dell’Ottocento l’italiano, come lingua parlata e scritta, era diffuso solo fra gli strati più colti della società; l’80% circa degli italiani era analfabeta, parlava e comprendeva solo il proprio dialetto di origine. Il Romanticismo sosteneva la necessità di una lingua scritta più vicina a quella parlata.
Lo scrittore che ha avuto il merito di aver avvicinato con la sua opera la lingua scritta a quella parlata è Alessandro Manzoni. Infatti, nella stesura definitiva del suo capolavoro, I promessi sposi, ha utilizzato il fiorentino parlato dalle persone colte eliminando tutte le espressioni dialettali lombarde, i francesismi e i termini della lingua letteraria. Il romanzo, proprio perché scritto in una lingua moderna, lontana da qualsiasi artificiosità, ebbe un grande successo e costituì un modello per la lingua comune della futura nazione italiana.

Nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla proclamazione dell’Unità d’Italia (1861), la necessità di una lingua comune a tutti gli italiani divenne una questione nazionale. Lo Stato unitario fece quello che poté per diffondere in tutto il paese la conoscenza e l’uso dell’italiano: rese obbligatoria l’istruzione elementare; adottò l’italiano come lingua ufficiale dello Stato imponendone l’uso in tutti i rami della pubblica amministrazione; rese frequenti gli spostamenti di funzionari, impiegati e insegnanti da Nord a Sud e viceversa.

Alla fine dell’Ottocento, comunque, l’unificazione linguistica non era stata ancora raggiunta. L’analfabetismo si era in parte ridotto, ma la grande maggioranza degli italiani (sul sito Studia Rapido leggi Gli italiani nell’Italia unita) continuava a parlare il dialetto, riservando l’uso dell’italiano alle occasioni ufficiali e formali.

È stato nel corso della seconda metà del Novecento che la lingua italiana si è imposta in modo sempre più deciso a discapito dei dialetti.

I fattori che contribuirono alla realizzazione di una lingua unitaria, parlata e scritta, furono:
– il flusso migratorio interno degli anni Cinquanta e Sessanta, che vide un gran numero di Italiani trasferirsi dalle regioni povere del Sud verso le grandi città industriali del Nord. Tali migrazioni interne, insieme al fenomeno dell’urbanesimo, cioè al trasferimento di interi nuclei familiari dalle campagne alle città, resero necessaria l’adozione di una lingua comune per poter comunicare e, quindi, vivere e lavorare fianco a fianco;

– la scuola, che, grazie alla legge del 1962, rese gratuita e obbligatoria l’istruzione fino a 14 anni;
– i mezzi di comunicazione di massa: radio, televisione, cinema, giornali, riviste
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